Le vetrine luccicanti dei negozi, aperte come bocche senza denti che inghiottono uomini e donne, vecchi e bambini, che vomitano buste da cui sporgono nastri in riccioli dorati, ecco cos’è per me il Natale. Io son qua con il mio cartello dieci ore al giorno, pagato a cottimo. Illuminato dal lampione dal fusto verde, uguale ogni giorno a se stesso, un albero di ferro indifferente. Odio questo vento gelido che ghiaccia le orecchie, odio la pioggia fredda che scricchiola sul cartello, odio il vapore appiccicoso di queste giornate da maratoneti dello shopping, odio la falsa ipocrisia di chi mi risponde non ho niente. Che io lavoro, cazzo, non chiedo mica l’elemosina. Se poi vi va di seguire il consiglio riportato sul cartello (“panino tipico+patatine+bibita a cinque euro), fate pure, non ne trarrò guadagno ulteriore, mi pagano dopo le feste, tutto compreso.  Sempre meglio del rincoglionimento subito durante l’addestramento non pagato per diventare un “formidabile” call center. Ho piantato tutto quando il team leader, il capetto di zona, mi urlava contro di finire in due minuti mentre il cliente sbraitava e nella stanza neanche una finestra vicina, l’aria che puzzava di plastica riscaldata, e dovunque guardassi vedevo bocche che ripetevano la sigla dell’azienda. Dunque, viva il cartello. Per le feste non è male, è un lavoretto che m paga giusto l’affitto, che mi copre il necessario perché passi dal tempo tra un prestito e l’altro. Forse i miei l’hanno capito, vedi la telefonata di ieri. Ma anche dormire tranquilli non è male. Anche se le ossa urlano.

Mi piacerebbe salire sui tetti e vedere questi branchi di compratori dall’alto. Ammirare le direttrici che partono dalle periferie per arrivare in centro, seguire i punti che si allontanano e si riuniscono, in girandole veloci che defluiscono lente, sorridere ai gabbiani infidi, affacciarmi senza paura sul vuoto che attende. Senza nessuna paura.

la catena per cui lavoro sta in tutto il mondo, e dappertutto. Nelle piazze come negli aeroporti, nelle autostrade e (non ci crederete, ma è così) e vicino ai cimiteri, tra un centro commerciale e una discarica. Misteri del marketing, onniscenza dei manager. Ha un marchio facilmente riconoscibile cui qualche furbo ha associato un pupazzo colorato che  i ragazzini adorano. Sapete quelle robe colorate dalla specie indefinibile? Che so metà delfino, meta muflone, un casino della natura con gli occhi a spillo ed un becco simpatico e morbido. Ecco. Quel mostro partorito dalla creatività malata di un pubblicitario cocainomane è più di una mascotte: è il marchio, il segno, è l’affetto che provi nel guardarlo mentre la glicemia va alle stelle, è il sorriso del tuo bimbo obeso, è mangiare senza pensare, è più che nutrirsi, è il senso piacevolmente untuoso del consumare, quell’ebrezza sottile ed acuminata che passa dalla pancia, che abita nell’amigdala, che vive della frustrazione più grande che un essere umano deve sopportare: la mortalità. Per questo io il coso lo chiamo il morto. Se fossi credente forse urlerei vitello d’oro. E forse anche marcite tutti nelle fiamme dell’inferno. O svegliatevi. Va be’ quest’ultima credo che se la siano aggiudicata altri.

la catena per cui lavoro scrive panino tipico, ma il cibo non è selezionato, la carne è scadente, e di tipico ci sono solo gli immigrati che ci lavorano. La salsa è in polvere, le verdure sono fritte nel grasso, il pane ha la stessa composizione del chewing gum, e sotto un etto di cipolla cruda bianca geneticamente modificata per puzzare mangereste anche la carcassa di un gatto. Io l’ho mangiato una volta sola: per poco non mi ricoveravano. Qualcosa aveva fatto iterazione con il chinotto. Dai sintomi sembrava un nuovo virus, del ceppo ebola. Era un’intossicazione. Pensare che una parte della paga mi va via in panini. Bastardi di merda.

mentre staziono col cartello, fumo. Dio mio come mi guardano. Sembra che rubare sia più accettabile socialmente. I fumatori sono un nuovo capro espiatorio. Che il loro sangue grondi dalla gola, se lo meritano. Bei tempi quelli in cui la pubblicità mi sussurrava che ad essere un vero uomo, quello delle praterie, che sgozza puma con lo sguardo, cinturone in vita e pistola nel fianco, mi mancava solo una biondissima, amarissima sigaretta. Tempi in cui questa affascinante appendice della mano emanava il fumo necessario affinché una donna intravvedesse nel mio viso ah! mistero! ah! fascino. Ora mi schivano, e scrutano le dita alla ricerca dell’inconfondibile macchia giallina. Ma fumo comunque ed ascolto. Andiamo mamma! Mangiamo il panino (l’ubbidiente). Andiamo babbo! Voglio un panino (il viziato). Si mangia il panino (questo l’abbiamo perso). Per piacere? Per favore? Dai? Mangiamo da xxx? Ti prego? (figlio che ringrazierà i genitori, aspetta qualche anno e vedrai se non ho ragione) C’è l’offerta! Chiamo anche X? (pochi soldi). C’è l’offerta, su ragazzi che poi si va da Gucci (?). Non ci voglio andare mamma, fa schifo! (difficile potersi vantare d’aver visto un nobel in tenera età, ma a me è successo). Voglio il pupazzo (eccoti qua, sapevamo come trovarti), che sarebbe quello che sento più spesso.  Mi guardano, guardano la mia sigaretta e si schifano. Io sorrido e la butto (sensi di colpa) e dopo un minuto ne ho acceso un altro (fanculo i sensi di colpa). Questo è il mio unico vizio, mi dico. E continuo ad ascoltare.

Vorrei salire sui tetti e dare un senso, sistemare certi spazi, come da piccolo nella città dei Lego. Vorrei che si fermassero per un po’ tutti. Mania d’onnipotenza mi dice una vocina.

Vorrei salire sui tetti e anche non potendo sistemare nulla, capire ed accettare le traiettorie di questo fiume ansimante, scalpitante, vorrei salire e vedervi tutti più piccoli, per un minuto o due e così ridimensionare questi giorni. Anche da lontano il vostro passo è pesante, anche dai tetti minacciate come dei. Anche da qui ho paura. Dire che a me piace vivere.

vorrei salire sui tetti.

(no, non lo fare)